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Viaggio virtuale nello stabilimento Anic di Pisticci

Breve storia dell’Anic di Pisticci

L’ Anic di Pisticci ha rappresentato il più importante stabilimento nella storia della Basilicata prima della localizzazione, nei primi anni Novanta, di uno stabilimento Fiat a Melfi, comune situato nell’area Nord della regione.

La decisione dell’Eni di realizzare uno stabilimento petrolchimico in provincia di Matera fu determinata dalle tensioni sociali scaturite dalla scoperta nel 1959 del metano nel sottosuolo della Val Basento e sostenuta dalle predisposizioni della legge 634 del 1957 che tra le altre cose stabiliva l’obbligo per le partecipazioni statali di destinare alle regioni meridionali il 60% dei nuovi investimenti e il 40% degli investimenti complessivi. Il tutto all’interno di un quadro fortemente determinato dai finanziamenti in conto capitale della Cassa per il Mezzogiorno.

Quando nei primi mesi del 1960 l’Agip iniziò la costruzione dei metanodotti che avrebbero convogliato il metano lucano verso le industrie pugliesi, l’intera provincia materana fu paralizzata dalle proteste spontanee delle popolazioni locali che chiedevano la costruzione in Val Basento di uno stabilimento petrolchimico per la lavorazione in loco del metano. Dopo aver vagliato diverse ipotesi progettuali l’Eni optò per la realizzazione di uno stabilimento destinato alla produzione di materie di base per l’industria della plastica (metanolo, formaldeide e altri derivati) e di fibre sintetiche (acriliche e poliammidiche), utilizzando come materia prima prevalente il metano. In tale scelta l’Eni, oltre a considerare l’esigenza dello sfruttamento delle risorse metanifere locali, aveva tenuto conto della massiccia disponibilità di forza lavoro, scegliendo linee di produzione richiedenti un elevato impiego di manodopera.

I lavori di costruzione del nuovo stabilimento Anic (ramo petrolchimico dell’Eni) cominciarono alla fine del 1962 e terminarono nel 1965, anno nel quale gli impianti entrarono in produzione. Fino al 1975, tuttavia, lo stabilimento fu oggetto di periodici investimenti che ne allargarono progressivamente la superficie con l’aggiunta di nuove linee produttive. Complessivamente arrivò ad occupare 45.000 metri quadrati, articolandosi in sei diversi impianti produttivi: uno per la produzione di metanolo e formaldeide, uno per la produzione di vapore, energia elettrica e acque trattate (necessarie per le successive fasi di lavorazione del prodotto), tre impianti per la produzione di fibre (rispettivamente fibre acriliche, fiocco poliammidico, filo ritorto e filo poliammidico stirato), e per ultimo un impianto per la produzione di polimero di caprolattame, materia utilizzata nel processo produttivo del nylon.

La costruzione dello stabilimento Anic stravolse la dimensione rurale e agricola della società materana. Dal punto di vista paesaggistico costituì un’isola metallica in un mare di campi arati, uno scintillante miraggio di progresso e modernità ampiamente utilizzato nei documentari commissionati dall’azienda a importanti registi dell’epoca con lo scopo di far conoscere il più possibile le nuove attività e i programmi del gruppo. L’esercizio operativo del binomio scienza-tecnica, reso visivamente dalle immagini di costruzione degli impianti, avrebbe marcato il segno della complessa trasformazione sociale in atto in Basilicata e in altre aree del Mezzogiorno dove l’Eni stava costruendo i propri stabilimenti.

Dal punto di vista sociale, invece, significativo risulta il fatto che i contadini pisticcesi che solo da pochi anni, grazie all’applicazione delle misure previste nella Riforma Agraria, avevano ricevuto la tanto agognata terra, si affrettarono ad abbandonare il lavoro nei campi per cercare occupazione nei nuovi stabilimenti. L’antropologo inglese John Davis, che proprio in quel periodo si trovava a Pisticci per studiare le relazioni amicali, di parentela e di vicinato in una comunità rurale del Mezzogiorno, scrisse che con l’avvento della petrolchimica i pisticcesi furono costretti a ripensare completamente la loro struttura occupazionale e conclusero che le nuove opportunità erano migliori.

Già in fase di costruzione lo stabilimento favorì l’occupazione di migliaia di lavoratori. Nella prima metà degli anni Settanta, periodo di massima produzione, l’Anic di Pisticci arrivò ad occupare direttamente più di 3.000 operai, rappresentando un vero e proprio ascensore sociale. In un articolo dedicato dal quotidiano «La Stampa» agli stabilimenti chimici della Val Basento si legge:

«la struttura produttiva non è sufficiente ad assorbire tutta la mano d’opera disponibile in loco, ma nelle famiglie contadine il terzo o il quarto figlio è riuscito a diventare operaio dell’industria, ha acquistato l’automobile e recepisce subito e volentieri standards di vita impossibili fino a ieri».

Inoltre, proprio all’Anic si manifestò in modo evidente l’inizio di un processo economico e sociale destinato a cambiare il ruolo della donna nella società lucana. Quando l’Eni, nel 1963, annunciò di riservare trecento dei nuovi posti di lavoro alla manodopera femminile, fu letteralmente subissato da richieste di assunzione. Nel giro di pochi mesi ne arrivarono più di 12.000. Il passaggio dallo scialle nero, capo di abbigliamento tradizionalmente indossato dalle donne lucane, alla tuta blu dello stabilimento venne preso dalla stampa dell’epoca come simbolo dei profondi cambiamenti che scuotevano il tessuto sociale della Val Basento.

Anche il gruppo pubblico, tuttavia, a partire dal 1975 fece registrare le prime perdite. Queste aumentarono poi nel biennio successivo, raggiungendo tra il 1976 e il 1977 la cifra di 200 miliardi di lire. I primi segni di crisi si registrarono negli stabilimenti di Ottana e Pisticci. Nato solo pochi anni prima dalla guerra chimica con il gruppo Sir dell’imprenditore Nino Rovelli, lo stabilimento di Ottana produceva fibre poliestere con lo stesso procedimento produttivo utilizzato a Pisticci. La sua entrata in attività generò, quindi, un eccesso di produzione proprio nel momento in cui in tutta l’Europa si registrava una crisi di sovrapproduzione delle fibre sintetiche. I magazzini dei due stabilimenti si riempirono di merce invenduta e l’Anic fu costretta a mettere in atto un piano di risanamento del settore a danno soprattutto dello stabilimento materano.

A partire dai primi giorni del 1976 iniziò l’agitazione di operai e sindacati, che temevano la chiusura e la dismissione degli impianti per la produzione di fibre sintetiche, con i conseguenti tagli occupazionali. Dopo lunghe trattative con l’Asap, nel mese di settembre si raggiunse un accordo sul futuro dello stabilimento di Pisticci che prevedeva l’annullamento di tutti gli investimenti finalizzati ad incrementare la produzione e l’attuazione in tempi brevi degli investimenti necessari ad apportare miglioramenti tecnici e qualitativi al prodotto. In seguito all’accordo, nel giugno del 1977 i sindacati consentirono l’attivazione della cassa integrazione guadagni per 250 operai al fine di consentire la riconversione produttiva dell’impianto fibre e con la promessa di una loro immediata riassunzione a lavori finiti. La riconversione, tuttavia, fu realizzata solo parzialmente e di conseguenza non si procedette alla riassunzione di tutti i lavoratori. Negli anni successivi, invece, aumentarono le ore di cassa integrazione e il numero di lavoratori coinvolti. Cominciava in tal modo una lunga fase di dismissione dello stabilimento che sarebbe definitivamente terminata nel 1984. Con la definitiva chiusura dello stabilimento Anic terminava la parantesi della chimica in Basilicata. Nel 1979, infatti, l’Eni aveva rilevato gli altri stabilimenti chimici lucani dal gruppo Liquichimica, (che a sua volta ne aveva acquistato la proprietà tra il 1974 e il 1976) con l’obiettivo, politicamente eterodiretto, di salvare i livelli occupazionali.

Il fallimento dei progetti di reindustrializzazione ha poi consegnato le aree industriali che avevano ospitato le fabbriche chimiche ad uno stato di abbandono, con il sorgere di pesanti emergenze ambientali. Nel luglio del 2002 la legge n.179 ha individuato l’area industriale della Val Basento come sito di interesse nazionale a causa della contaminazione del suolo e delle falde acquifere generata dalle attività industriali preesistenti. Pochi mesi dopo con il D.M del 26 febbraio 2003 è stato definito il perimetro del sito, comprendente un’area di 3.300 metri quadrati. Nel 2001, invece il D.M 468 aveva istituito il Sin di Tito Scalo, comprendente l’area di insediamento della Chimica Meridionale.

L’inquinamento dei siti insieme ad un particolare paradigma di industrializzazione basato sui nuclei di sviluppo industriale collocati in aperta campagna e lontano dai centri abitati ha ostacolato quel processo che Augusto Ciuffetti definisce di “ricostruzione-riappropriazione” di una memoria storica degli spazi industriali abbandonati, con il loro portato di significati e valori per le comunità locali.

Il progetto “Lavoro tra passato presente e futuro”

Con il progetto “Lavoro tra passato, presente e futuro” l’Istituto di ricerche economiche e sociali e l’Archivio Storico della Cgil Basilicata hanno cercato dare dignità alla storia industriale della Basilicata, partendo proprio dallo stabilimento dell’Anic e sottolineandone il ruolo avuto nei processi di trasformazione socio-economica del territorio circostante. Si tratta di un progetto pilota nel campo delle digital humanities, che combinando ricerca storica, moderne tecnologie e competenze variegate1 ha cercato di aggirare le difficoltà connesse alla valorizzazione del patrimonio industriale lucano, come ad esempio la mancata bonifica delle aree industriali.

La tecnologia Oculus Rift, nata nel per le applicazioni videoludiche e che negli anni ha trovato larga applicazione nel campo della valorizzazione dei Beni Culturali, è stata utilizzata per realizzare un viaggio virtuale e immersivo nello stabilimento dell’Anic di Pisticci.

Il primo passo è stato una ricerca di natura archivistica. Le cartine e i progetti degli impianti e le foto degli ambienti interni e dei macchinari, conservati presso l’Archivio Storico dell’Eni di Pomezia, sono stati utilizzati come base documentaria su cui impostare il lavoro di modellazione digitale, attraverso il quale sono stati ricostruiti ambienti e macchinari del reparto.

Gli ambienti sono stati poi arricchiti da sagome di operai estrapolate dalle fotografie e dalla riproduzione di documenti conservati presso l’Archivio Storico della Cgil Basilicata riportanti i principali dati di ciascun lavoratore, con l’intento di restituire virtualmente il volto umano e sociale della fabbrica e allo stesso tempo di incrementare la quantità di informazioni accessorie messe a disposizione dei fruitori.

Per la riproduzione del rumore dei macchinari in funzione è stato utilizzato il sonoro dei filmati divulgativi dell’Eni.

Attraverso l’utilizzo di Engine Grafici propri della Computer Grafica e del Gaming è stato sviluppato un software per la creazione dell’applicativo, compatibile con i moderni visori di realtà immersiva Oculus Rift.

Indossando il visore Oculus, quindi, è possibile effettuare una passeggiata nello stabilimento, osservando le macchine e gli operai a lavoro e leggendo documenti, manifesti e volantini delle organizzazioni sindacali presenti nella fabbrica. In questa passeggiata il fruitore dell’applicazione è, inoltre, accompagnato da una voce narrante che racconta la storia dell’Anic e le trasformazioni indotte dalla sua presenza sul tessuto sociale materano.

La ricostruzione virtuale è stata presentata e sperimentata su un pubblico vasto nel corso della festa regionale della Cgil Basilicata, nel mese di settembre 2018. In quell’occasione è stato possibile osservare come l’effetto fascinazione generato dalla realtà virtuale facilità la divulgazione dei contenuti scientifici incorporati nell’applicazione e genera una curiosità, anagraficamente trasversale, nei confronti della storia dell’Anic.

Il viaggio virtuale nello stabilimento dell’Anic vuole essere un primo passo di un’azione progettuale, articolata e ambiziosa, tesa a favorire la ricostruzione di una memoria collettiva del lavoro industriale lucano, superando definitivamente l’immagine di una Basilicata agricola e contadina. Il recupero delle memorie individuali, del materiale documentario esistente e dei siti e degli oggetti utilizzati nel processo produttivo sono tutte tappe fondamentali per il raggiungimento di tale obiettivo.

 

1 Giovanni Casaletto ha coordinato il progetto e si è occupato della stesura dei testi, Giovanni Ferrarese si è occupato della ricerca e della supervisione scientifica, Pasquale Ferrarese, Beppe Guerriero, Federico Capriuoli si sono occupati del rilievo 3D, fotogrammetrico e laser, Giuseppe La Greca dello sviluppo software e della modellazione 3D, Fabio Pappacena del doppiaggio, Raffaele Santoro del mixaggio dei suoni.